Uscire dalla crisi si puo


Sono ormai due anni pieni che la “crisi dell’Eurozona” accompagna la nostra vita e come una spada di Damocle pende sulla nostra testa, con il suo corteo di borse altalenanti, tecnicismi diventati ormai di uso comune come spread o default, allarmi di crollo generale, manifestazioni di piazza, governi che cadono; per moltissimi, poi, questa crisi è uscita dalla discussione teorica di banchieri ed economisti, per entrare nella vita quotidiana, togliendo prospettive di lavoro, interrompendo piani di vita già avviati, introducendo una profonda incertezza su praticamente tutto, perfino sulla moneta che ci portiamo in tasca. Gli esperti (e anche Berlusconi) dicono che il pessimismo e l’incapacità di guardare avanti in modo positivo nonostante le avversità hanno un impatto decisivo nella creazione di una spirale che da grigio ci porta a vedere tutto assolutamente nero, influendo in modo decisivo sulla nostra capacità di reagire, e forse non hanno torto. In questi giorni dopo il terremoto in Emilia, poi, questa sensazione che tutto stia per precipitare si combina a un diffuso senso di pena e impotenza, che rende ancora più difficile trovare il filo di un percorso possibile e positivo di uscita dalla crisi. Possiamo cercare di consolarci pensando che questo non è il periodo più duro che questo vecchio continente e i suoi abitanti abbiano dovuto affrontare; e che se i nostri nonni e nonne hanno ricostruito l’Europa fino a renderla il posto al mondo dove si vive meglio, allora anche la nostra generazione ce la può fare. In un bel libro scritto prima della crisi, Jeremy Rifkin parla del “sogno europeo” come un’opzione molto più attraente e molto più adatta al “futuro” di quello americano. Il problema è però che coloro che più di questo dovrebbero avere coscienza, gli europei, non se ne sono ancora resi conto e sottovalutano sistematicamente le loro potenzialità.

Insomma uscire dal tunnel si può (ancora). Dobbiamo però al più presto muoverci simultaneamente su due piani, che sono assolutamente legati tra loro e indispensabili uno all’altro: il rilancio del progetto dell’Unione federale e la scelta del Green New Deal, la riconversione ecologica dell’economia europea.

Se le ricette di uscita dalla crisi applicate da due anni a questa parte ci hanno portato un passo dall’abisso, è anche perché si è creato un intreccio nel quale strumenti (e volontà politica) insufficienti di gestione comune della crisi, combinati a politiche basate su approcci ideologici molto radicati (ahinoi) ma fallaci hanno a loro volta accentuato a dismisura gli squilibri e le divisioni interne dell’eurozona; per cui una crisi che poteva essere rapidamente affrontata all’inizio del 2010 con un robusto ma limitato piano di salvataggio della Grecia, si è tramutato in un domino molto pericoloso, nel quale l’UE appare come uno sgangherato treno dove ognuno dei vagoni potrebbe deragliare da un momento all’altro, i piloti non sanno bene che fare e molti giocano con il fuoco.

Insomma, per ripartire occorre decidere una volta per tutte il rafforzamento degli strumenti comuni, finanziari e legislativi (soldi e regole insomma) per ritrovare coesione e quindi stabilità; e riuscire ad accordarsi su come creare nuove prospettive di attività economica ed occupazione, attraverso la “riconversione “ ecologica dell’economia.

La prima cosa da fare è mettersi d’accordo sulle cause della crisi, che peraltro non è caduta dal cielo: non è vero nessuno avesse visto che la strada di una globalizzazione senza regole e fortemente squilibrata, basata sulla finanziarizzazione dell'economia e sull’incapacità di distinguere fra gli aspetti virtuosi e quelli viziosi della “crescita”, fosse insostenibile. Credere che l'origine del buco di bilancio di molti stati europei e la causa dell’instabilità dell’eurozona sia stato prevalentemente l’eccesso di spesa pubblica e non la necessità di salvare il sistema bancario dopo anni di finanza allegra e il rallentamento dell'attività economica sta alla base della soluzione “tutta tagli” del gruppetto Merkozy/Barroso+ IMF e BCE. E’ chiaro invece che “domare” la finanza è ancora un obiettivo da raggiungere. Anzi, il settore finanziario è riuscito in questi anni ad utilizzare a suo vantaggio la crisi del debito, riuscendo a frenare in modo considerevole il trend di riforma che era stato avviato nel 2008 e che procede ancora troppo a rilento, continuando a drenare ingentissime risorse pubbliche e non facilitando l’accesso al credito. Se non si riuscirà a dare risposte serie in questo settore sarà molto difficile uscire dall’attuale instabilità e incertezza sul destino della nostra moneta comune. Se è verissimo che i Greci hanno frodato, gli italiani troppo e mal speso e gli spagnoli hanno permesso che banche e “popolo” si lasciassero andare alle gioie del credito troppo facile e tossico, è anche vero che negli ultimi due anni le responsabilità del governo tedesco, dei suoi “alleati” e della Commissione europea nella gestione di una crisi nata oltreoceano dallo scoppio della bolla della speculazione finanziaria sono veramente molto gravi.

Il punto che ancora non pare entrato nella zucca del club di paesi intorno alla Merkel e di gran parte della Commissione è che la spesa pubblica non è il nemico da abbattere

soprattutto in fasi come questa, nelle quali l'allarme sociale è fortissimo e milioni di persone sono a rischio povertà. Come diceva giustamente Mario Monti quando era “solo” un Professore, siamo ancora molto condizionati da un "populismo della disciplina" che come vediamo ogni giorno ha un effetto assolutamente nefasto e che ha molto contribuito alla situazione di gravissima instabilità nella quale ci troviamo oggi. Questo naturalmente non significa che non sia necessario avere delle finanze pubbliche a posto o che all'ideologia del libero mercato “uber alles” sia necessario sostituire quella dell’”illibero” mercato. Il punto è però quello di distinguere fra cattiva e buona spesa pubblica, fra investimenti e spesa superflua. Ed è qui dove, come vedremo, il dibattito in atto sul “nuovo” mantra della “crescita” dopo quello dell’austerità come unica soluzione alla crisi è ancora poco convincente.

In secondo luogo, con buona pace della Merkel e dei suoi colleghi finlandese e olandese, senza un quadro europeo coeso, nuovi strumenti e la messa in comune di almeno una parte del debito, le esperienze più virtuose non saranno sufficienti a riportare la calma nella società e sui mercati. Che la Polonia, i paesi scandinavi e la Germania abbiano prospettive economiche ancora abbastanza positive va benissimo, ma questo non basterà alla lunga a salvare nemmeno loro, tanto è vero che un giorno si e l’altro pure ci troviamo a fare i conti con la prospettiva davvero spaventevole del crollo dell’euro e delle conseguenze sconosciute che questo avrebbe sull’intera Unione Europea e sull’economia globale. In terzo luogo, l’aumento della disoccupazione e la recessione ormai in atto in molti paesi dimostrano in modo lampante che non è necessario soltanto avere più Europa e sgolarsi sulla necessità della “crescita”: è importante creare in fretta un nuovo quadro di “attività” economica, cose da fare, prodotti da inventare, mercati da costruire, riorientando le (poche) risorse esistenti pubbliche e private in modo coerente e coordinato a questo scopo.

Regolare il settore finanziario e preparare la messa in comune di almeno una parte del debito, rilanciare il progetto europeo, orientare verso nuove attività “sostenibili” intense in lavoro e in “innovazione” l’economia: Tutto questo sarebbe ancora possibile, ma per quanto possa sembrare strano, il paraocchi ideologico e anche il testardo rifiuto di arrendersi all’evidenza che solo una risposta comune molto netta può fermare la spirale negativa, non permettono oggi alla maggioranza dei governanti europei di agire per avviare un circolo economico virtuoso, anche ora che molti di loro paiono finalmente capire che il “tutto tagli” ci porta alla rovina. E cosi, Barroso propone di utilizzare 230 milioni di euro e i crediti della BEI per rilanciare i piani di grandi infrastrutture pensati alla fine degli anni ’80 di cui davvero non si sente grande necessità; Oettinger (commissario all’energia) ritiene che sia necessario investire in gasdotti e grandi infrastrutture energetiche invece che sulle rinnovabili e sull’efficienza (non si può fare tutto, dice…); la Commissione continua a mandare agli stati membri raccomandazioni di tagli, liberalizzazioni e riforme “strutturali” del mercato del lavoro come se nulla fosse avvenuto dal 2008 ad oggi; e i paesi “contributori netti” (meno Francia e Italia) si battono perché il bilancio comunitario venga ridotto sotto l’1% del PIL europeo, si oppongono strenuamente all’idea di dedurre dal debito la spesa per gli investimenti e si continuano a fingere di credere che la Grecia o la Spagna si salveranno “risanando” le finanze pubbliche in due anni, nonostante fino a pochissimo tempo fa il debito spagnolo fosse inferiore a quello tedesco; infine, per tornare alla psicologia, i pregiudizi rovesciati sulle responsabilità della crisi dei nordici rispetto al “club mediterranee” e viceversa si approfondiscono ogni giorno di più. Quindi, anche il “nuovo” dibattito su cosa fare “oltre” i tagli non ha ancora preso la strada giusta. Si parla di “crescita”, spesso anche di “crescita sostenibile”, ma non si dice che cosa concretamente serva per arrivarci o si punta su vecchie ricette, si è scettici rispetto al valore aggiunto di una messa in comune delle risorse, non si riescono a trovare le maggioranze necessarie per lanciare grandi progetti come la tassa sulle transazioni finanziarie e dunque si rimane in un limbo, nel quale si vuole restare insieme, ma non si è disposti a pagarne il prezzo anche perché non si sa se ne varrà davvero la pena.

Purtroppo, non so se sia possibile risolvere davvero questa situazione senza un deciso cambio di direzione politica, che, se ci sarà, potrà avvenire nel 2013, in particolare con le elezioni in Italia e in Germania, e nel 2014 con le elezioni europee; è importante notare che queste elezioni saranno davvero una sfida importante, perché potrebbero determinare un cambio di passo delle istituzioni della UE verso maggioranze politiche progressiste e pro-europee oppure verso maggioranze instabili e impotenti, con la vittoria di partiti nazionalisti ed euroscettici.

Ma è molto probabile che non sarà possibile ranquillamente aspettare di vincere le elezioni, (che comunque non sappiamo se vinceremo…)

E’ già un fatto positivo che l’elezione di Francois Hollande e in parte anche l’arrivo di Monti abbiano cominciato a modificare i rapporti di forza; ma anche se la Francia é oggi molto più decisa sugli eurobonds che ai tempi di Sarkozy, non è per nulla chiaro che abbandonerà la sua tradizione “souveraniste”. Peraltro questo tema della necessità di scegliere se unirsi di più o andare ognuno per la sua strada sta emergendo sempre più come una questione davvero centrale e molto più urgente del previsto. Come ha precisato Draghi nel suo recente intervento al PE, per affrontare la crisi l’UE deve assolutamente chiarire a sé stessa dove vuole andare e cosa vuole essere; e il giovane Presidente della Bundesbank ha dichiarato in un’intervista che tra le cause della sua opposizione agli Eurobonds c’è anche il fatto che non è in vista la creazione di uno stato federale! Ulteriore dimostrazione che non basta cambiare strada dal punto di vista dell’approccio politico, occorre anche rinsaldare il progetto Europa e non se non sono i soliti federalisti che lo chiedono, ma i Banchieri e perfino l’Economist bisognerà presto darsi una mossa. Come?

Credo che ci siano almeno tre cose da mettere subito in cantiere. Per quanto riguarda la Grecia, è evidente che la logica dura dell’applicazione di tutte le riforme e nei tempi previsti contenute del Memorandum firmato a febbraio con la EU e il FMI non funzionerà. Non solo perché già oggi la Grecia è in ginocchio e ulteriori tagli non faranno nulla per risolverne i problemi, ma perché le molte riforme pur necessarie contenute nel Memorandum non sono fattibili in pochi mesi e in un deserto di miseria; soprattutto tutti sanno che gli ingenti denari che la Grecia riceverà dai contribuenti europei dovranno andare a finanziare il debito (e quindi le banche che lo detengono) e non la ripresa dell’attività economica o la spesa sociale, peraltro difficile da organizzare in una paese davvero in rovina. Quindi a che servono gli arroganti ultimatum dati agli elettori greci che si preparano a tornare alle urne? Se fossi greca forse sarei anche io un po’ anti-troika (oltre che anti-partiti che hanno malgovernato fino ad oggi). Penso perciò che la strada più efficace sia quella di riaprire la discussione su alcune clausole capestro del memorandum e sui tempi della sua applicazione, peraltro impossibili da rispettare. Oltre che, naturalmente, quella di un piano di aiuti europeo, basato in particolare sull’intervento della BEI e su fondi strutturali non utilizzati (si parla di più di 7 miliardi di euro (http://www.thebureauinvestigates.com/2011/09/14/eu-spending/) ancora non spesi per incompetenza amministrativa -ci ricorda qualcosa, no?), gestito con le autorità EU e che dovrebbero essere ridiretti verso investimenti nella ricostruzione della economia e della società ellenica. Inutile dire che dare rapidamente una prospettiva positiva alla Grecia è importante anche per il resto della UE, per Spagna e Italia in particolare. In questo contesto, il nostro governo potrebbe fare molto per creare una nuova dinamica nella UE, ma l’impressione è che non abbia ancora davvero deciso (come sottolineava qualche tempo fa un autorevole commentatore sul “Financial Times”) se battersi davvero o no per un cambio di rotta che prima o dopo non potrà che sfociare in un conflitto aperto con i “rigoristi”.

Peraltro, ed è questo il nostro secondo compito “immediato”, dobbiamo essere coscienti che Mario Monti - che è stato il primo a proporre lo scorporo della spesa per gli investimenti dal computo del debito idea che oggi appare indispensabile per uscire dalla contraddizione “austerità/sviluppo”- , non ha ancora capito la portata davvero “rivoluzionaria” di una svolta verde del sistema economico e dà l’impressione di continuare a pensare che pensa che la “crescita” si definisca con l’aumento del PIL, non importa se costruendo ponti e tunnel o puntando su sostenibilità ed efficienza. Quindi, dovremo forse cercare seriamente di convincerlo!

Eppure è un dato ormai largamente riconosciuto che la riconversione verde produce crescita di PIL, crea più occupazione di quella che viene persa nei settori tradizionali, e' più efficiente nella conservazione del patrimonio naturale - rompendo la tradizionale contraddizione fra ecologia ed economia- e nella lotta alla povertà. Tutto questo naturalmente non cade dal cielo, ha bisogno di investimenti, una ferma direzione politica e un quadro normativo chiaro.

Certo, si dirà, per investire ci vogliono denari, e molti. E' esattamente per questo che è indispensabile approfondire la discussione appena iniziata sulla politica fiscale e sull’uso virtuoso delle ingenti risorse europee ancora non spese. Una discussione che deve toccare la questione su cosa tassare e cosa detassare, oltre che gli aspetti redistributivi e la lotta senza quartiere alla frode e all'evasione fiscali: anche se temi considerati tabù come la tassazione delle transazioni finanziarie, la detassazione del lavoro, un livello più uniforme di tassazione delle imprese, le cosiddette imposte ecologiche (per finanziare la riconversione dell’economia, la sobrietà energetica, la conservazione dell’ecosistema) si discutono oggi in ambienti molto lontani dai movimenti “alter-mondialisti”, la prospettiva della loro adozione non è semplice perché i Trattati attuali non ci danno la possibilità di farlo

Ecco dunque il legame tra l’agenda “verde” e la spinta verso una maggiore integrazione europea e una nuova iniziativa “costituzionale”, terzo “to do” per i prossimi mesi.

Un momento importante per iniziare questo processo potrebbe essere la discussione parlamentare sulla ratifica del Fiscal Compact, approfittando del fatto che lo stesso François Hollande ha fatto di questo un tema centrale della sua campagna elettorale. Il Fiscal Compact è il Trattato firmato a 25 inutile e dannoso che, al di fuori di ogni procedura o dibattito democratico ha imposto il pareggio di bilancio come condizione della “solidarietà” e il rigore come dogma; anche se, è bene precisarlo, è davvero dubbio che i suoi effetti saranno particolarmente rilevanti, se non per la propaganda interna della Merkel; infatti, poiché nel Trattato si dice che gli Stati membri dovrebbero prevedere la “golden rule” “se possibile” come regola costituzionale, è chiaro che ogni Stato può decidere di fare più o meno quello che vuole; inoltre, dato che per il resto le disposizioni dal Fiscal Compact sono contenute in leggi europee già adottate, il suo valore aggiunto è dubbio. Oggi sembra improbabile che il Fiscal Compact verrà come tale modificato, ma quello che è invece fattibile è porre come condizione per la ratifica l’adozione di una serie di misure dalla Tassa sulle transazioni finanziarie agli eurobonds, a un cospicuo aumento del bilancio europeo per finanziare politiche di occupazione, alla fine del potere di veto e una maggiore partecipazione del PE alle decisioni sulla governance economica. Anche il Germania l’idea di legare la ratifica a ulteriori riforme sta facendosi strada e il Parlamento italiano ha già adottato nella risoluzione di indirizzo di qualche settimana fa una posizione simile. Senza perdersi in dettagli formali, è evidente che questo presupporrebbe la riapertura del cantiere “costituzionale”, dato che è inaccettabile continuare a approvare modifiche importanti ai Trattati senza alcuna discussione e partecipazione pubblica.

In conclusione, l’unico modo per l’Unione Europea di riacquistare legittimità agli occhi dei suoi cittadini è quella di dimostrare di saper concentrare le sue risorse su politiche e strumenti utili all’uscita dalla crisi e alla promozione dell’occupazione e dell’innovazione, attraverso investimenti adeguati. Ecco perché per uscire dalla crisi dell’Eurozona e dell’UE è si necessaria una maggiore integrazione e la stabilità dell’euro, ma anche una politica economica e sociale radicalmente diversa rispetto a quella dominante nella capitali europee, che metta al centro la qualità della spesa e non la quantità e accompagni la rivoluzione verde dell’economia e della società. Non possiamo aspettarci che le istituzioni europee inizino da sole questo processo, che è politico e istituzionale. Senza una forte spinta e pressione di partiti e associazioni, l’UE e le sue politiche rimarranno lontane dai cittadini e preda di gruppi di interesse, poteri economici e rapporti di forza fra Stati più o meno forti. E’ arrivato il tempo di riappropriarsene.