TTIP: OBAMA NON NE PARLA, MA NOI Sì!
Obama è sbarcato ieri in Italia con il suo passo atletico e il suo sorriso contagioso, dopo una breve tappa in Belgio, occasione per un discorso bello, ma alla fine poco concreto; davanti a 2000 persone e con sullo sfondo le bandiere della NATO, ha ricordato con parole ispirate e il talento dell'attore consumato, i legami con l'Europa e la storia bellissima del sogno europeo di unità e diritti come patrimonio comune per tutta l'Umanità.
Di un tema importante per le relazioni transatlantiche Obama, però, non ha parlato: la Partnership su commercio e investimenti, detta TTIP, il più vasto e complesso accordo commerciale (e non solo) mai tentato. Normale, forse, perché si tratta di un tema zeppo di tecnicità e dettagli complicati oltre che "top secret" e controversi: più se ne sa, e meno semplici saranno i negoziati. Eppure è bene cominciare ad occuparsene rapidamente e pubblicamente, anche perché sarà un tema "bollente" in vista delle elezioni europee e soprattutto del semestre di Presidenza italiana. Infatti, anche se le ottimistiche previsioni che prevedevano la fine dei negoziati a fine anno non saranno certo rispettate, è chiaro che nei prossimi mesi si dovranno prendere alcune decisioni per decidere la direzione che prenderà l'accordo. Si tratta del più vasto e complesso accordo commerciale (e non solo) mai tentato prima e secondo chi lo sostiene, l'eliminazione o la riduzione di norme e controlli considerati come ostacoli al libero commercio, frutterebbero un aumento fino allo 0,5-1% del PIL. Queste, però, sono le stime al 2027 alle quali andrebbero poi aggiunti gli eventuali costi dell'allentamento di norme in materia di salute o ambiente. Se si guarda con attenzione si scopre allora che le previsioni si basano su cifre imprecise e che l'unico guadagno previsto sul breve termine è di 40 euro all'anno per famiglia.
Ma i dettagli non ci è dato conoscerli, perché il TTIP è negoziato nel massimo riserbo: la Commissione Ue lavora su mandato segreto degli Stati membri e nemmeno i deputati europei o nazionali hanno accesso ai termini concreti delle discussioni.
Sia chiaro, noi siamo più che favorevoli a espandere la cooperazione transatlantica nei settori d'interesse comune e riteniamo importante che gli operatori economici siano i protagonisti della transizione verso un nuovo modello di sviluppo (magari più attento ai cambiamenti climatici e ai diritti dei lavoratori). Oggi però il processo tramite il quale si sta costruendo il TTIP è un attacco a molte libertà e preferenze espresse democraticamente dai cittadini. È un accordo orientato verso un'idea di economia senza "qualità" sociale e ambientale: basato sulla convinzione che l'impresa multinazionale, in quanto sacra fornitrice di lavoro, non possa essere ostacolata da quisquilie come regole su ambiente, finanza, salute. Ci auspichiamo, quindi, che le elezioni di maggio siano occasione di mobilitazione massiccia per formare maggioranze capaci cambiare questo approccio alle relazioni transatlantiche.
Oltre ai contenuti più che discutibili, con il TTIP si pone anche un problema di legittimità democratica, messa in questione dalla clausola ISDS. Si tratta di una clausola secondo la quale se regole, standard, leggi nazionali o europee in materia di ambiente, salute, finanza, ecc. si trovassero in contrasto con gli interessi e/o andassero a discapito degli investimenti di imprese, gli Stati potrebbero essere portati di fronte a corti di arbitrato e obbligati a pagare multe salate. L'ISDS (investor-to-state dispute settlement) consiste in un sistema di regolamento dei conflitti tra Stato e imprese che permette alle imprese di scavalcare le giurisdizioni nazionali, facendo riferimento direttamente a dei tribunali di arbitrato internazionali, spesso composti da avvocati provenienti dalle imprese stesse.
Siamo di fronte a una situazione molto pericolosa: immaginate cosa accadrebbe se davvero, introdotta l'ISDS, 14.000 imprese americane avessero la possibilità di mettere in discussione le leggi nazionali dei paesi Ue tramite le loro 50.800 imprese con sede in Europa. Uno scenario possibile, basta ascoltare quello che dice pubblicamente Stuart Eizenstat, del Transatlantic Business Council "Molti standard europei sono ingiustificabilmente alti, e questo non ha basi scientifiche: ciò che può mangiare una famiglia americana, dovrebbe andar bene anche ad una famiglia europea". Il TTIP rischia, così, di diventare il mezzo per aggirare tutte le norme scomode: dopo gli OGM, il primo obiettivo sarebbe il famigerato "principio di precauzione", da tempo considerato da molti esponenti del mondo del business come un vero e proprio freno alla ricerca e allo sviluppo economico, ma ogni settore ha, poi, il suo preferito: dall'industria chimica che vuole addolcire il REACH, a quella della cosmetica che vuole ammorbidire i controlli sui propri prodotti e quella agroalimentare per evitare gli standard di protezione riguardanti, per esempio, la carne.
Ovviamente la Commissione respinge al mittente le accuse di volere ridurre gli standard europei e sostiene che le consultazioni avvengano a tutto tondo, ma il punto è che se si accetta il principio del "riconoscimento mutuo" di standard molto diversi, attraverso le filiali nei vari paesi si potrà approfittare delle differenze regolamentari e di fatto ridurne l'efficacia. Ci sono certamente standard che meriterebbero di essere armonizzati, ma ogni "equivalenza" dovrebbe essere accordata a regole che non possono essere troppo discordi. Peraltro, è interessante notare, parlando della "qualità" degli scambi che sarebbe invece possibile spingere, che il TTIP non contempla la promozione di tecnologie che aiuterebbero la trasformazione verso un'economia "low carbon" e nulla ci dice che si discuta di eliminare la barriera agli scambi rappresentata dai sussidi alle fonti di energia fossili. La possibilità di attribuire vantaggi a produzioni e tecnologie a minore impatto sull'ambiente e a maggiore intensità di lavoro di qualità non pare presa in considerazione: un sicuro freno alla transizione ecologica.
Ma c'è un altro modo di costruire un'auspicabile alleanza transatlantica? Certo! Con un accordo multilaterale che sia coerente con il "Green New Deal", che implichi politiche contro i cambiamenti climatici e il consumo eccessivo di risorse e che promuova la giustizia sociale e i diritti di chi lavora. Un sogno? No e l'esempio della sconfitta di ACTA lo dimostra. Recentemente, più di 200 gruppi europei e statunitensi hanno protestato contro il TTIP e anche nel Congresso americano ci sono voci contrarie a questo accordo. In vista delle elezioni europee, con l'Italia che si prepara a presiedere l'UE in un periodo importante per i negoziati con gli USA, è bene sapere che facendo fronte comune con organizzazioni della società civile, sindacati, gruppi di consumatori, ma anche partiti come i Verdi europei, si può ancora cambiare strada.
Crediamo che i nostri standard debbano essere rispettati, anzi migliorati, anche a favore dei cittadini americani. Nei prossimi mesi l'Italia, in occasione del semestre di presidenza Ue, avrà almeno tre compiti. Dovrà rendere il più trasparente possibile la materia di questi accordi, fare in modo che gli standard (sociali, ambientali, etc) già decisi dall'Ue non vengano abbassati ed, infine, dovrà eliminare tutti quegli strumenti che si stanno discutendo oggi, come la clausola ISDS, che potrebbero direttamente favorire gli investitori privati a discapito delle norme decise democraticamente.
Dal mio blog su l'Huffington Post - http://www.huffingtonpost.it/monica-frassoni/ttip-laccordo-commerciale-usaue-obama-non-ne-parla-noi-si_b_5040550.html