Come farà Draghi a formare un governo che non si identifichi “con alcuna formula politica” nel momento in cui sono necessarie scelte chiare e nette per utilizzare al meglio gli strumenti europei, ma anche per avviare riforme che ne superano di molto la portata e per contare sui numerosissimi tavoli che in Europa e a livello globale ne determineranno il futuro?
Io credo che per evitare i “Draghi Grigi” giustamente paventati da Piero Ignazi su "Domani" di ieri, bisognerebbe non solo uscire dalla logica delle bandiere di partito e dei loro slogan, ma costruire un governo con un arcobaleno di colori – e cioè di approcci e culture più che di schieramenti- in cui il verde ecologista, il rosa femminile e il blu Europa abbiano un ruolo ben visibile e trovino una armoniosa combinazione con il giallo più libertario e sensibile ai diritti che quello grillino ortodosso, il rosso di una politica sociale che punti su una rivoluzione del welfare e dell’istruzione in direzione digitale e di vera e propria ricostruzione di competenze e cultura e magari anche un po’ di bianco da “cattolici adulti”.
Bisognerebbe inoltre trovare una composizione del governo nella quale i cosiddetti “tecnici”, non sono scelti fra coloro dediti a studi astratti o esperti di numeri, bensì tra le ormai numerose personalità che hanno dimostrato di sapere mettere la loro esperienza al servizio di soluzioni concrete per rispondere alla necessità di cambiamento e al disagio cosi diffusi e sono in diretto contatto - perché ne fanno parte -con il mondo associativo e con quelle forze vive di cui l’Italia dispone in abbondanza: questo governo avrà bisogno di essere sostenuto non solo dal consenso ma anche dell’impegno della società italiana, la dovrà motivare a trovare la strada di una reale emancipazione e ricostruzione. Non soluzioni calate dall’alto, insomma, ma abbracciate perché capite e condivise. Del resto, c’è in Italia più che in molti altri paesi che ho l’occasione di frequentare, un reale fermento e mobilitazione intorno alla grande occasione del PNRR, che ha portato numerosissime associazioni e gruppi di ogni tipo a mettersi al lavoro per proporre valide iniziative e proposte che davvero possono supplire, se solo le si considerasse e studiasse, alla povertà della politica, cosi spesso deprecata.
Sui colori, facile capirsi, meno agire concretamente, andando al di là degli slogan.
Un governo “rosa” non è solo un governo perfettamente paritario nei numeri e nei ruoli, elemento questo che dovrebbe essere “normale” ma che non lo è per nulla anche solo considerando la composizione a totale predominanza maschile delle delegazioni che si sono recate da Draghi e la situazione tragica delle leadership di partito femminili, Giorgia Meloni ed Elena Grandi dei Verdi a parte. Ci vorrebbe anche, come suggerito dal Manifesto elaborato dalle numerose associazioni e personalità riunite in “Halfoit-Donne per la salvezza”, una perfetta parità negli strumenti della governance del PNRR, una sistematica valutazione di impatto di genere di ogni provvedimento e un Ministero delle pari opportunità staccato da quello della famiglia e con un cospicuo portafoglio.
Un governo “verde” dovrebbe sapere superare la visione dei governi precedenti di una pennellata di verde qua e là a politiche energetiche e industriali ancora fortemente ambigue sulla necessità di uscire dalla costosa dipendenza dai combustibili fossili (gas compreso); una visione ancora incerta sull’importanza del Green Deal in termini di lavoro, competitività, diminuzione delle diseguaglianze e dei vantaggi che potrebbe invece portare una scelta senza ambiguità a favore di rinnovabili ed efficienza energetica, economia circolare, politiche urbane e “grandi opere”, come la manutenzione e “riparazione” del territorio, delle strade e dei trasporti pubblici locali e regionali: elementi questi concretamente motivati in innumerevoli e autorevoli studi e rapporti usciti nelle ultime settimane che speriamo il Presidente incaricato, di cui è ignota la sensibilità al tema dei cambiamenti climatici e della transformazione verde, avrà il tempo di prendere in considerazione.
Infine, anche il “blu” Europa non è cosi univoco; ci sono molti modi di essere “europeisti”, soprattutto se oggi pure Salvini rivendica di esserlo.
Draghi per primo sa che si tratta di un’etichetta che si presta ad almeno tante ambiguità quanto la ripetizione ossessiva di “sostenibile” messo a tutto, dalla TAV alle autostrade inutili o alle trivelle nell’Adriatico. Intanto, essere “europeisti” non significa seguire pedissequamente la Merkel o Macron, la prima sempre più indifferente alle ragioni della democrazia e dei diritti come ampiamente dimostrato nel caso dell’accordo commerciale con la Cina o nell’insistenza sul North Stream Due, il secondo tentato dalle fughe in avanti dettate dall’illusione della grandeur francese e che comincia a manifestare qualche insofferenza rispetto alla volontà della Commissione di giudicare i piani nazionali secondo i criteri definiti dalle norme e priorità europee e non in base alla potenza degli Stati. Ma nemmeno assecondare sempre la Commissione a trazione Ursula, che parla poco con i suoi Commissari ed è esposta a errori gravi di valutazione (anche a causa dei suoi ovvi legami con la Germania), come si è visto nel caso della gaffe sui controlli all’esportazione dei vaccini. Essere “europeisti” oggi significa definire per l’Italia una linea di azione non solo sulle numerose decisioni che dovranno essere prese nei prossimi mesi, a partire dall’attuazione del Green Deal, ma anche essere portatori di una vasta agenda di riforma democratica che renda la UE capace di agire come oggi non sa fare, bloccata da veti nazionali e derive autoritarie.
Monica Frassoni
Bruxelles, 7.02.2021