Quei paletti inutili di un ceto autoreferenziale
Nei due interessanti articoli di Michele Piras e di Guido Liguori (il manifesto, 25 giugno) si discute di come affrontare la stagione che si apre per un “nuovo inizio” fuori dal partito democratico, dopo che il “partito di Renzi” ha scelto una strada conservatrice ed eco-indifferente (quando non eco-ostile) in economia, conformista e irrilevante in Europa, cerchiobottista sul tema dell’immigrazione (impagabile la battuta sui rimpatri-tabù, che avvengono regolarmente e a gran costo da anni), autoritaria ed autoreferenziale nel dibattito sui grandi temi della società, dal lavoro alla scuola alle regole elettorali, cinica e disinvolta rispetto alla battaglia contro corruzione e illegalità.
Dico subito che mi convince molto di più il ragionamento di Piras che quello di Liguori, pur se molto onesto e stimolante.
Ho vissuto anche io, con molta passione all’inizio e con sempre più disillusione fino alla campagna elettorale del 2013, l’evoluzione di Sel. Da ecologista di matrice libertaria mai stata comunista né socialista, mi piaceva l’idea di un’aggregazione libera e plurale, e ricordo quando perfino a Bruxelles i ragazzi della “Fabbrica di Nichi” portavano a discutere di cose complicate come i meccanismi dei fondi europei o la battaglia sull’austerità anche 300 persone a volta. Poi però ci si è chiusi nel recinto della sinistra identitaria e del bilancino dei poteri. Complici anche le divisioni degli ambientalisti, si sono marginalizzate culture e battaglie importanti, a parte un’adesione di maniera. E si è abbandonato il campo dell’innovazione organizzativa ai meet-up di Grillo e alla loro dirompente e semplice contro-aggregazione.
La proposta di Liguori è sostanzialmente quella di continuare su questa strada. Magari rinunciando al “bilancino dei poteri” e portando giovani militanti a sostituire (ma solo un po’) vecchie glorie, e allargando lo spazio a singoli e partiti, a patto che siano tutti rigorosamente di “sinistra” e aderiscano al Partito europeo della Sinistra unitaria. Prescrizioni escludenti a priori: conta prima di tutto l’identità, esattamente ciò che a mio modo di vedere ha contribuito al progressivo spegnimento della forza innovativa di Sel e che si è rivelato perdente nel momento della raccolta del consenso; come ben si è visto con l’esperienza della Lista Tsipras, che ha buttato via l’idea dell’aggregazione vasta degli “europeisti insubordinati” per chiudersi nel recinto della sinistra radicale.
E’ bene notare che sia Syriza che Podemos, a torto o a ragione, hanno decisamente rifiutato questa strada: Syriza governa nel bene e nel male con un partito di destra e punta peraltro a trivellare il Mediterraneo come Renzi; e Podemos vince clamorosamente a Madrid e Barcellona quando si aggrega a un vastissimo fronte che riunisce istanze concrete e plurali, mentre arriva terzo dopo Ppe e Psoe quando va da solo alle regionali. Peraltro, una lezione analoga viene pure dalle elezioni ultime in Italia: non un voto dei moltissimi persi da Renzi è andato a Sel. Che il Pd prenda il 40% come alle europee o il 25% come a queste regionali, la sinistra radicale – si chiami Sel o Lista Tsipras – resta inchiodata tra il 3 e il 4%.
Ho già avuto modo di esprimere su queste pagine il mio convincimento che «la rivoluzione allegra non si ferma a sinistra» (il manifesto, 14 Marzo). Ribadisco che se si continuerà ad escludere o a pretendere semplicemente di assorbire anche associazioni, espressioni culturali, politiche, operatori economici, lavoratori e imprese che non sono interessate e ancora meno coinvolte dall’etichetta identitaria e di schieramento, ma che si battono per un’altra economia, per la ripresa dell’iniziativa federalista in Europa contro frontiere e nazionalismi, per i diritti di tutti, anche stavolta perderemo una grande occasione.
Insomma, sono d’accordo con Piras quando dice che bisogna sorridere di più in politica, «valorizzare e mettere in rete le potenzialità e le troppe solitudini rimescolare davvero le identità». Anche quelle che non sono (troppo) targate a sinistra.
Articolo pubblicato su Il Manifesto il 30/06/2016
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