L'EUROPA DOPO L'ATTACCO A CHARLIE HEBDO
Gli spaventosi eventi di Parigi con l'attacco odioso a Charlie Hebdo, sono un campanello di allarme per tutti (l'ennesimo): dobbiamo davvero cambiare verso a molte cose in Europa e senza perdere altro tempo!
Libertà e democrazia non sono mai totalmente acquisite e, se è vero che stiamo parlando di criminali che usano la religione come un kalashnikov e che sicuramente non hanno nulla a che vedere con i milioni di musulmani che vivono nelle nostre società, è anche vero che tutti, loro compresi, hanno una responsabilità diretta nel non permettere che questi atti giustifichino derive illiberali, nuovi e vecchi razzismi, nuove e vecchie frontiere, incomprensioni e divisioni tra persone diverse fra loro, ma perfettamente in grado di vivere insieme.
E allora, la discussione su come fermare i "barbari" e come impedire che episodi come questi diano ancora più voce a chi, da Le Pen a Salvini o i manifestanti di Dresda, non hanno soluzioni, ma sono bravissimi a soffiare sul fuoco della paura e dell'ignoranza, è direttamente legata al come uscire dalla crisi economica, sociale, politica che attanaglia una parte importante dell'UE. In questo senso, la capacità di cambiare i rapporti di forza dentro e fuori le istituzioni europee nei prossimi mesi è cruciale. Come cruciale è avviare un vero dibattito europeo, capace di superare rischiose e ormai diffusissime false verità, secondo le quali, per esempio, secondo i tedeschi sono loro a pagare sempre tutto, in Grecia tutti si sentono vittime innocenti di un complotto nordico e in Italia ci si aspetta da un momento all'altro di essere invasi da orde di profughi.
Pare proprio che solo uno "shock" possa permettere di cambiare il tran-tran brussellese di parametri, regole e tagli, nonostante i bei discorsi di Juncker e l'agitazione di Renzi: un paio di giorni fa il vice presidente della Commissione, Katainen, che ha l'immagine di un falco pur apparendo a un contatto diretto un giovine signore gentile e molto timido, ha detto a un convegno dei Liberali che per fare in modo che il Piano Juncker riesca nell'ambiziosa opera di trasformare 21 miliardi (o 16) di euro spremuti qui e lì dallo striminzito bilancio europeo in 350 miliardi di euro di investimenti per lo più privati, è necessario riportare « fiducia » negli investitori sul fatto che le cose « andranno nella giusta direzione » e, dunque, continuare nelle riforme per eliminare gli ostacoli rappresentati da "rigidità normative" (in particolare sul mercato del lavoro), buchi di bilancio e "rischi politici", oltre a minacciare sanzioni e ad assicurare una certa trasparenza nel processo di selezione dei progetti; questo al fine di creare le condizioni per l'apporto di capitale di rischio e per finanziare l'avvio o la crescita di attività in settori considerati ad elevato potenziale di sviluppo. Quali sarebbero questi settori? Nella testa di Katainen si tratta soprattutto di finanziare grandi progetti infrastrutturali, ritenuti ancora, nonostante anni di evidenti ritardi e fallimenti, i più efficaci volani di crescita non importa se poco sostenibile (dalla Lione-Torino a vari altri tunnel, autostrade, ponti e altri faraonici progetti, spesso inutili che stanno dai primi anni '90 tra i progetti prioritari della UE, fino a centrali nucleari e tecnologie di dubbio valore come il gas di scisto e il CCS). Nulla di nuovo sotto il sole, quindi. Per il suo principale promotore, perché il Piano Juncker funzioni, l'austerità e il rispetto dei criteri devono assolutamente continuare: sennò niente investimenti e niente crescita, perché, appunto, i "mercati" non si fiderebbero. Una visione rigida e miope che continua a non capire che il vero "rischio politico" non riguarda ormai più il non rispetto del Fiscal Compact e patti collegati, ma l'esplosivo mix di disoccupazione, casse pubbliche vuote, assenza di reali prospettive chiare di uscita dalla crisi a fronte di persistenti privilegi e ineguaglianze, che stanno minando la base stessa della coesione sociale in molti paesi in crisi e a cui fanno da contraltare, in molti altri che se la cavano meglio, una svergognata disinformazione spesso basata sulla storiella dei virtuosi che devono pagare per gli errori di interi popoli spendaccioni e, per di più, sostenere orde di extra-(e intra) comunitari in fuga. È l'incrocio letale fra queste due tendenze che dobbiamo rompere per ritrovare la strada di una politica europea e nazionale che sappia imparare dai gravissimi errori degli ultimi anni, uscire dalla camicia di forza dei parametri e ritrovare un po' di senso comune e solidarietà.
Che fare allora?
Il primo appuntamento importante di questo 2015 sono ovviamente le elezioni in Grecia del 25 gennaio prossimo. Serve non solo arrivare a un cambio di maggioranza in grado di rompere con pratiche e logiche del passato in quel paese, ma anche un rimescolamento delle alleanze fra diversi membri dell'UE e dentro le stesse istituzioni europee, in grado di smantellare quel muro d'ideologia, d'inerzia e mancanza di visione che rende ancora dominante la strategia dell'austerity "uber alles", anche dopo i suoi molteplici e plateali fallimenti. Insomma, vincere le elezioni non sarà sufficiente per Siryza e i suoi eventuali alleati (tra i quali ci sono da ieri anche parte degli ecologisti greci), se intorno altri governi, a partire da quelli italiano, francese, spagnolo, con almeno una parte della Commissione Juncker e del PE, non sosterranno un segnale di discontinuità chiaro: dalla riapertura delle condizioni e dei tempi per il rientro della Grecia dal suo debito, per arrivare ad una ridefinizione del Piano Juncker, secondo priorità e disponibilità finanziarie ben diverse dalle attuali.
Sul primo punto, la devastazione creata dalla attuale depressione economica e sociale in Grecia è una delle principali sfide politiche e morali per la zona euro e l'Unione europea nel suo complesso. Il fatto che l'economia abbia forse toccato il fondo e oggi possa solo risalire non può costituire un motivo di soddisfazione visti i grandi rischi depressivi insiti nel programma di aggiustamento in corso.
Dopo l'attuazione disastrosa dei primi due programmi, rimangono poche opzioni realistiche e di rapida attuazione per invertire l'attuale tendenza e dare una prospettiva di raggiungere a termine la sostenibilità del debito pubblico. Alcune misure potrebbero tuttavia agevolare il duplice obiettivo generale di ridurre l'onere del debito per la Grecia e dare qualche spazio per il lancio di una specie di "piano Marshall" di cui molti parlano: un compromesso costruttivo in modo da sostenere il nuovo governo democraticamente eletto in Grecia per ottenere una rinegoziazione del programma greco con la UE, con condizioni chiare volte a fornire un beneficio tangibile per il popolo greco e un percorso rassicurante anche per i partner europei. Non dobbiamo infatti sottovalutare il fatto che sarà sempre più difficile in molti paesi, Germania in testa, ottenere un piano generoso e che funzioni senza una vera battaglia politica, che smonti l'idea secondo la quale, come citato più sopra, non serve a nulla continuare a buttare soldi pubblici in sistemi che hanno dimostrato di non essere riformabili.
Una prima misura molto concreta e solo apparentemente tecnica è uscire dalla pratica veramente deleteria degli ultimi anni, secondo la quale calcoli sistematicamente sbagliati e troppo ottimisti sul PIL fatti dalla Troika (Debt sustainability assessment) hanno portato al circolo vizioso e punitivo di più di austerità in cambio di più tempo per la restituzione e più prestiti. In secondo luogo, i termini dei prestiti bilaterali forniti dagli Stati membri dell'area dell'euro potrebbero essere rivisti in modo da estendere ulteriormente la scadenza dei prestiti fino a 30 anni, mentre un periodo di grazia di 10 anni potrebbe essere concesso per i pagamenti di interessi. Tale operazione potrebbe produrre circa 4 miliardi di euro di sollievo pagamento entro il 2035 che potrebbe essere completamente allocata per il lancio di una crescita sostenibile, basata su investimenti "verdi" e la lotta alla corruzione e l'ingiustizia fiscale. Infine, l'importo di cofinanziamento per fondi europei di coesione e strutturali che devono essere forniti dal settore pubblico greco potrebbe essere ridotto a zero nel corso dei prossimi 10 anni. Questa misura, in combinazione con linee di credito potenziate fornite dalla BEI e un controllo molto più stretto sulla qualità dei progetti, potrebbe ulteriormente aiutare a stabilizzare la domanda pubblica interna senza deteriorare le prospettive del debito pubblico.
Ma lo sforzo di rottura con le vecchie pratiche non deve interessare solo la Grecia, deve interessare l'insieme delle decisioni che stanno nell'agenda europea; dalla governance economica, al rilancio del dibattito sulle risorse proprie, all'Unione energetica e i negoziati sui cambiamenti climatici e naturalmente il Piano Juncker. Quest'ultimo è certo limitato e il processo di decisione su quali progetti finanziare non è ancora chiaro. Per di più, se dobbiamo giudicare dai progetti presentati a Bruxelles dagli Stati membri, scelte verso investimenti diretti a facilitare attività portatrici di occupazione di qualità, tecnologie di punta e coerenza con i nostri obiettivi climatici sono molto a rischio: autostrade, centrali più o meno fossili, grosse infrastrutture vanno ancora per la maggiore. Esistono però delle reali possibilità per influenzare in senso "virtuoso" questo processo e agire creando una reale sinergia con le normative europee più avanzate, in particolare in materia di energia, di politiche urbane, industriali e agricole . A partire dai criteri di selezione, che dovranno essere discussi pubblicamente e co-decisi dal PE, fino alle linee direttrici che la Commissione sta elaborando e al ruolo della Banca Europea degli Investimenti. Ma per realizzare questo piano ambizioso ci vuole la capacità di molti degli attori coinvolti a pensare ed agire in modo "europeo" e su questo, purtroppo, nessuno ad oggi è in grado di dare garanzie credibili.
Dal mio blog su Huffington Post: http://www.huffingtonpost.it/monica-frassoni/quali-realistiche-opzioni_b_6442220.html