E’ il tempo di un nuovo soggetto politico ecologista e federalista.
Monica Frassoni, Presidente del Partito verde europeoNon credo che, come dice Nichi Vendola, il luogo politico "europeo" per battere il liberismo ed elaborare un'alternativa alle politiche di austerità sia il Partito dei Socialisti Europei. Né penso che la famiglia dei socialisti europei sia il “contenitore” unico della politica progressista in Europa, almeno per le sue forme più avanzate e nuove; anzi, in questi ultimi anni di dominazione anche culturale della destra mercatista e illiberale, credo che ne abbia costituito spesso una versione più “moderata” ma, appunto, non sostanzialmente alternativa.
Peraltro, secondo me, non è neppure necessario che ci sia un contenitore unico delle politiche per “un’altra Europa”. Solo un fronte plurale per cultura, proposta, approccio, metodo, capace di parlare “europeo” superando gli interessi nazionali e che agisca da pungolo anche rispetto al PSE potrà avere il consenso necessario per superare davvero la fase attuale, che è si di “crisi” del liberismo, ma anche della sinistra tradizionale. In altre parole, se più forze sono necessarie per disegnare questo grande progetto di altra “Europa”, è importante capire se a livello europeo sia davvero il PSE la casa per chi voglia fare una battaglia di avanguardia e di radicale rinnovamento. Io ne dubito. Basta guardare a come si è sviluppata, in questi anni di profonda crisi, la riflessione e l’azione sulle politiche concrete, in particolare nel Parlamento Europeo, che, anche se pochi se ne rendono davvero conto, l’unico spazio di dibattito pubblico e in molti casi di decisione davvero “europei”.
E’ proprio sulle proposte su come uscire dalla crisi, sul rapporto con l’austerità Merkel-Barroso-Draghi e sull’agenda indispensabile e innovativa della riconversione ecologica ed energetica, che il PSE e i socialisti europei sono esitanti e spesso guardano indietro. Come dimostrano la perdurante illusione delle grandi opere (dalla Lione-Torino all’Aereoporto di Notre-Dame-Des Landes); o il convincimento di molti che il modello energetico non possa davvero rinunciare al nucleare o al carbone; o il sostegno convinto ad una politica agricola che bada molto agli interessi dell’agro-industria e poco alla qualità e all’ambiente, i socialisti europei dimostrano con i loro voti al PE di rimanere troppo spesso legati ad una visione piuttosto conformista dell’economia e della società; dimostrano che nel loro funzionamento non riescono ancora a superare i condizionamenti nazionali e ad agire “europeo”. Anche se non è ancora detta l’ultima parola e speriamo ancora che non sia cosi, tutti noi sappiamo che è probabile che alla fine il gruppo socialista non avrà il coraggio di respingere l’accordo dei Capi di Stato e di Governo sui tagli al bilancio europeo e cederà ad un accordo con il PPE.
Sulla necessità di un rilancio “senza se e senza ma” del progetto democratico europeo, a partire da una critica dura della prassi dei vertici di governi che decidono in segreto, il PSE è una macchina pesante e spesso bloccata dai veti nazionali e dalla moda della “solidarietà, si, ma a casa nostra” che spopola nel Labour, nella SPD, nei socialisti olandesi. Non ha il coraggio di sposare davvero la strada dell’integrazione federale dell’UE e di farne una battaglia dura e visibile contro la destra e il populismo. Il PSE è profondamente diviso anche su tematiche di “libertà”, come si è visto sull’ACTA o sul software libero; è rimasto sordo davanti a importanti casi di mobilitazione popolare e solo una forte pressione esterna di movimenti e cittadini e un lungo lavoro di mediazione dentro il Parlamento in particolare con i Verdi e molto più raramente con la Sinistra Europea (la cui evoluzione merita una riflessione a parte) ha avuto ragione dei dubbi di molti di loro.
Nei 20 anni che ho passato in Parlamento e oggi nella mia funzione di Presidente del Partito Verde europeo, ho spesso dovuto ingoiare grandissime frustrazioni, quando i socialisti hanno lasciato “scadere” grandi battaglie che si sarebbero potute vincere in timidi e inoffensivi compromessi con il Partito Popolare europeo. Dalla Costituzione europea (chi si ricorda che a Nizza nel 2001 c’erano 13 governi socialisti su 15 e la riforma fu un gigantesco flop proprio in materia democratica, sociale e di bilancio?) fino alle ultime battaglie sulle lobbies e la trasparenza; dall’ambiguità sui regimi di Cina e Russia al consociativismo sistematico con il PPE sulla gestione della “casa comune” Parlamento europeo. Insomma, la battaglia sulla nuova Europa ha sicuramente bisogno del PSE, ma non sarà dentro quel contenitore che le punte più avanzate del federalismo e delle forze ecologiste, libertarie e di movimento potranno trovare un reale spazio di azione e di rappresentanza.
Detto questo, credo che la scelta di Nichi Vendola, -pur se non so quanto discussa e maturata dai membri e militanti di SEL-, sia coerente con la sua storia e in un certo senso rappresenti un “ritorno a casa” logico, dopo un viaggio che sicuramente non è stato facile; un ritorno “accelerato” dal risultato negativo delle elezioni di febbraio e dai “movimenti” dentro il PD; un ritorno che era già comunque nell’aria, come ho potuto notare anche dalla mia sfortunata esperienza di candidata esterna di SEL.
Nichi Vendola ha insomma reso esplicita la rinuncia a rappresentare uno spazio politico autonomo di avanguardia, progressista, ambientalista, laico e di sinistra “plurale”, distinto dal PD. E a livello europeo ha scelto di stare nel PSE, magari con l’ambizione di renderlo un po’ più di sinistra.
L’idea appare dunque quella di ricostituire uno spazio di matrice decisamente “socialista”, aggregando anche quella parte del PD che proviene dalla sua stessa cultura, magari con alla guida Fabrizio Barca: sperando forse in una “rottura” del PD tra una parte più “moderata”, guidata da Renzi, e una più progressista, anzi “social-democratica”. Insomma, una sorta di ritorno al punto di partenza, dove l’accento è più sull’evoluzione della cultura comunista-socialista piuttosto che il “mescolamento” con le altre e in particolare quella cattolica-moderata. Evoluzione che confermerebbe quello che ho sempre pensato, da quando Prodi annunciò la lista unica dell’Ulivo alle elezioni europee del 1999, dopo le quali gli eletti si divisero allegramente tra il gruppo socialista e il gruppo liberale: e cioè che quest’ossessione di mettere insieme cattolici e ed ex-comunisti, magari con l’illusione di essere davvero aperti ad altre culture e proposte (che in realtà sono rimaste marginali) non era poi cosi “necessaria” e che un’alleanza ben organizzata, un Ulivo che fosse stato capace di tenere le promesse delle origini, magari ci avrebbe fatto perdere meno tempo, dato meno patemi e più vittorie. Soprattutto dopo l’abbandono del mattarellum e l’arrivo del “porcellum”….Mah. Vedremo. Oggi comunque resta il fatto che non a tutti coloro che hanno aderito al progetto di SEL e a quello del PD sembrerà particolarmente interessante questa evoluzione. Insomma, la questione che si pone oggi a chi non ha particolare interesse a fare parte di un progetto socialdemocratico né in Italia né tantomeno in Europa, è che fare?
C’è oggi la necessità e lo spazio politico perché anche in Italia ci sia un soggetto che faccia riferimento alle forze più avanzate della cultura ecologista europea, che integri gli ambientalisti “ovunque dispersi”, che abbia un’ambizione di governo e rappresenti il punto di riferimento della nuova economia, descriva una società dove il limite delle risorse naturali e i cambiamenti climatici sono uno stimolo per trovare strade vincenti e alternative non solo per l’economia, ma anche per l’organizzazione del lavoro, per la scelta delle priorità di investimento e l’azione pubblica? E che abbia una forte dimensione e ambizione europea, nel senso di considerare la battaglia federalista non come uno dei suoi tanti temi di azione, ma come l’orizzonte necessario per costruire lo spazio adeguato per la realizzazione del suo progetto di democrazia e di nuovo corso verde?Un soggetto politico che non si ponga necessariamente in “contrapposizione” al PD o a quello che il centro sinistra diventerà, anzi, ma che, al di là della legge elettorale che verrà, riesca finalmente a rispondere al bisogno di rappresentanza di un’opzione verde, libertaria, federalista che oggi c’è un po’ dappertutto, dal Movimento5 Stelle al PD e SEL, ma che non è riuscita ad essere considerata più che un’appendice minoritaria di un discorso che in realtà non l’ha mai integrata davvero?
Forse sarebbe il caso di aprire una discussione seria su questo. A me sembra che la decisione di Nichi Vendola renda più facile arrivare alla conclusione che oggi i tempi siano maturi per un soggetto politico (che sia un partito, un’aggregazione, una lista, un movimento..) che sia il referente italiano del Partito Verde europeo, ma che sia anche capace, in vista delle prossime scadenze elettorali, di rappresentare un polo di attrazione sicuro e audace per tutti coloro che non si rassegnano all’inevitabile declino dell’ideale dell’Europa unita e federale.