LA POLITICA INDUSTRIALE EUROPEA INCIAMPA NEL GREENWASHING


Il 18 novembre, solo qualche giorno dopo la fine della COP28, durante la quale l’Unione europea ha giocato un ruolo importante nella redazione del compromesso (“transitioning away from fossil fuels”) dell’accordo finale, sono usciti due rapporti sullo stato della transizione verde dell’UE, uno dell’Agenzia europea dell’ambiente e l’altro della Commissione europea, che indicano che in assenza di misure più ambiziose e meglio applicate non verranno realizzati una parte importante degli obiettivi legati all’impegno di arrivare a emissioni CO2 nette zero per il 2050.  È bene precisare che gli obiettivi fissati dalla UE nel 2019 al fine di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 e di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 non sono numeri a caso, come alcuni esponenti anche di governo continuano a ripetere, ma rappresentano il percorso minimo che l’UE deve percorrere per giocare la sua parte nel mantenimento dell’aumento della temperatura entro il limite del 1,5°, ridurre in modo sostanziale l’inquinamento, causa di circa 400.000 morti premature all’anno in EU (80.000 in Italia), avviare una trasformazione virtuosa dell’economia verso modelli più sostenibili e competitivi.

Questo gap tra una Unione Europea all’avanguardia nel mondo e in ritardo quando non in pericolo di regressione sui numeri reali rispetto ai suoi impegni climatici è visibile anche in una delle decisioni politiche più importanti prese dai co-legislatori (Parlamento e Consiglio) nelle ultime settimane e riguarda il primo regolamento mai adottato in materia di politica industriale, il Net-zero Industry act.

 

Per qualche decennio, la politica industriale - termine che racchiude le misure con cui i governi mirano a stimolare specifiche attività economiche all'interno del loro territorio – ha avuto una cattiva reputazione. Il mercato unico dell'UE è stato visto come incompatibile con le politiche industriali nazionali, sinonimo di spreco di denaro pubblico e di frammentazione, in quanto queste potevano creare condizioni di disparità e concorrenza sleale dentro l’UE. E così, già dagli anni ’70 la Commissione ha iniziato ad intervenire su concorrenza ed aiuti di Stato nazionali; ma, date le dimensioni limitate del bilancio dell'UE, questo non è stato compensato dall'introduzione di misure efficaci e risorse per rafforzare l’industria a livello europeo.

Per molto tempo, l’UE ha creduto, sbagliando, che l'economia mondiale sarebbe gradualmente diventata simile a ciò che doveva diventare il suo Mercato Unico, un mercato non distorto da aiuti di Stato o da altre forme di comportamento anticoncorrenziale. Non solo le cose non sono andate così, ma il contesto negli ultimi anni è radicalmente cambiato; tre ragioni hanno imposto alla UE di reagire. La prima è la sua ambizione di diventare il primo continente a emissioni zero, con la conseguente necessità di enormi investimenti e di un profondo ripensamento delle priorità strategiche in materia di prodotti e tecnologie.  La seconda è l’aumento delle tensioni geopolitiche e i rischi per la sicurezza e la stabilità economica e sociale di dipendere da paesi stranieri per materie prime e componenti industriali; e, più recentemente, le misure molto robuste e le ingentissime risorse messe a disposizione dai concorrenti diretti della UE: gli Stati Uniti, con il suo piano miliardario di aiuti  per imprese green tech “made in USA” e la Cina, con la sua azzeccatissima strategia di accaparrarsi materie indispensabili alla transizione e di investire per tempo in rinnovabili e mobilità elettrica. Da qui, la presentazione nel marzo scorso da parte della Commissione della prima proposta di regolamento dedicata alla politica industriale, “Net Zero Industry” Act; il regolamento sta arrivando alle sue battute finali; Parlamento europeo e Consiglio hanno adottato le loro posizioni negoziali e si devono ora intendere sul testo finale. La proposta della Commissione aveva l’obiettivo molto condivisibile di utilizzare la transizione verso un'economia a zero emissioni come bussola per il rafforzamento della competitività dell'UE e la creazione massiccia di posti di lavoro verdi di qualità; riconosceva la necessità di introdurre criteri di sostenibilità negli appalti pubblici e includeva il solare, l'eolico, le batterie e le pompe di calore fra le tecnologie strategiche per il raggiungimento degli obiettivi climatici ed energetici per il 2030 e quindi prioritarie per finanziamenti e facilitazioni di vario tipo.

Purtroppo, durante il passaggio da Parlamento e Consiglio anche questa normativa è stata vittima di varie lobby industriali e di una indisponibilità politica e anche culturale ad ammettere l’estrema urgenza di investire prima di tutto nelle soluzioni in grado di assicurare rapidamente riduzione delle emissioni e nuova attività economica, e cioè rinnovabili ed efficienza energetica; e dunque la lista delle tecnologie “net-zero” è stata ampliata al nucleare e il ruolo della cattura e stoccaggio di carbonio (CCS), già presente nella proposta della Commissione, è stato ulteriormente rafforzato: si tratta di soluzioni che non ci aiuteranno affatto a raggiungere i nostri obiettivi al 2030 e 2050, perché non sono mature tecnologicamente, sono eccessivamente care o presentano problemi di sicurezza e fattibilità. Non a caso, lo stesso Fatih Birol, il direttore dell’Agenzia Internazionale dell’energia, ha definito come “fantasie” la possibilità che con la cattura del carbonio si possa ovviare all’urgenza di accelerare l’uscita dai combustibili fossili. Il fatto che nucleare e CCS/CCUS siano poste allo stesso livello che rinnovabili e pompe di calore indica un rischio molto serio di competizione per le già scarse risorse disponibili per la realizzazione del Green Deal. Sono modifiche che ostacoleranno il raggiungimento degli obiettivi al 2030 e 2050 ed hanno ridotto di molto la capacità di questo regolamento di orientare le scelte degli stati membri e della UE verso la transizione verde, indebolendone la portata innovativa e, in fine, temo, l’efficacia.

Ora è davvero indispensabile che i settori industriali interessati e la società civili sappiano mobilitarsi per impedire che nell’applicazione della normativa preziose risorse pubbliche e private vengano sprecate in soluzioni false e costose e in un greenwashing che renderebbe del tutto virtuale l’accordo di “uscita graduale” dai combustibili fossili siglato in gran pompa a Dubai.

 

Monica Frassoni

Bruxelles, 20 Dicembre 2023