Ho molto rispetto per Laura Boldrini e condividiamo spesso idee e pensieri in un rapporto da sempre affettuoso e cordiale. Però la sua proposta di una lista progressista, che comprenda anche il PD, al fine di essere competitivi alle elezioni europee del 2019 non mi convince. Per due ragioni, collegate fra loro.
La prima è che vincerà le elezioni europee chi saprà portare al voto il maggior numero di persone possibile. Nel 2014, hanno votato un po' più del 50% degli italiani aventi diritto, il 43% la media europea. Pochissimi, considerando il fatto che chi vince determina l’orientamento e la leadership della Commissione e del Parlamento, che partecipano direttamente e con poteri reali alla definizione di leggi e azioni europee. Questa volta, la posta in gioco è altissima. Bisogna impedire che il Partito Popolare Europeo, che si sta velocemente “Orbanizzando” come si vede dalle gesta del Ministro tedesco Seehofer e dal silenzio su queste di Manfred Weber, il capogruppo bavarese del PPE, ottenga di nuovo la maggioranza dei voti e magari si saldi con il fronte sovranista, che pare avanzare a grandi passi. La riconquista di una parte importante di elettorato indifferente, scoraggiato e astensionista diventa perciò indispensabile, soprattutto in Italia.
Perché, dunque, invece di estenuarci nella costruzione di un listone disomogeneo, che ci esporrebbe a mille conflitti, brutti compromessi e magari alle incursioni testosteroniche di questo o quel leader l’un contro l’altro armati, non organizziamo una offerta elettorale non frammentata, ma plurale e rappresentativa, in grado di cogliere e fare competere in modo sano le diverse opzioni che esistono nel campo di coloro che aspirano a impedire la conquista sovranista e reazionaria del Parlamento e a favorire il rilancio della Unione europea? Insomma, il tema importante di una coalizione ampia non implica una lista unica.
In secondo luogo, alle elezioni del 2019 si voterà con un sistema proporzionale (tradotto in Italia in modo pessimo con uno sbarramento al 4%, assurdo nella competizione europea, e preferenze da raccogliere in enormi circoscrizioni a suon di euro o di presenze TV); gli eletti si organizzeranno in gruppi che si richiamano a famiglie politiche europee più o meno stabili che, certo, potrebbero essere rivoluzionate nelle prossime elezioni, ma che si muovono senza accordi prestabiliti fra loro e secondo logiche proprie al fine di controllare il maggior numero di voti possibile.
Se l’obiettivo è quello di essere determinanti con convergenze pro-europee e pro-cambiamento per impedire la vittoria dei sovranisti, allora è molto meglio e molto più efficace allargare la nostra rappresentanza nei gruppi “utili” a questo fine, invece che concentrarla in uno solo.
D’altra parte, non ci sono maggioranze prestabilite: questo permette anche a gruppi relativamente piccoli, se coesi, presenti, capaci di interlocuzione a tutto campo, di ottenere risultati anche clamorosi, lavorando per dividere i gruppi maggioritari e agendo di sponda con rappresentati politici più vicini in questi ultimi. Tutto questo può sembrare lontano e tecnico, ma è così che, giocando un ruolo di avanguardia e spinta, abbiamo ottenuto come Verdi larghe maggioranze su temi come la privacy, la messa in piedi di commissioni temporanee su LuxLeaks o il Dieselgate, le tematiche ambientali, clima, energia, industria, e contribuito all’approvazione a larga maggioranza di una proposta realista ma ambiziosa del regolamento di Dublino, riuscendo a rompere il fronte anti-migranti.
Laura Boldrini è naturalmente consapevole del fatto che esistono diverse opzioni al PE e propone che gli eletti della eventuale lista progressista possano poi dividersi nei vari gruppi di appartenenza. Questo non è impossibile, ma non può partire da opzioni troppo distanti tra loro, anche a causa di come si articolerà la campagna europea, nella quale la scelta del candidato/a alla presidenza della Commissione europea (i cosiddetti Spitzenkandidaten) rappresenterà un elemento visibile (speriamo) delle diverse opzioni in campo.
Non è chiaro chi verrà nominato dai socialisti, fino ad oggi il secondo gruppo per importanza al PE, ma con un partito europeo assolutamente diviso e scoraggiato, incerto sulla direzione da prendere e con partiti nazionali in caduta libera, tranne che nella penisola iberica. Quanto ai liberali, molto divisi tra fronte ultra conservatore, liberista e tendenzialmente euroscettico e uno federalista, rappresentato da Verhofstadt, sono appesi alle decisioni di Macron, che vorrebbe sparigliare le carte rompendo lo status quo, ma che è in difficoltà in patria e appare sempre meno attraente per la parte progressista e moderata dell’elettorato europeo. La Sinistra Europea, che non ha mai avuto l’ambizione di essere un partito ed è quasi sempre divisa e in ordine sparso al PE, è oggi in preda ad una crisi senza precedenti, che vede i punti di rottura nella presenza di Syriza, vissuto come un “traditore”, e nella scelta fra un europeismo critico e un sovranismo militante portato da Mélenchon. Non sappiamo se vorrà o sarà in grado di presentare un candidato alla presidenza della Commissione e se sceglierà di partecipare al dibattito “europeo” con le altre forze politiche, come fece con successo nel 2014 con Tsipras. Su questo fronte, c’è anche l’iniziativa europeista di Varoufakis, che però non è chiaro chi e se riuscirà ad aggregare in vista delle elezioni, e con il quale abbiamo qualche interlocuzione e contatto, anche perché alcuni dei partiti che collaborano con lui hanno già reso noto che in caso di elezione confluiranno nel gruppo dei Verdi.
Quanto ai Verdi europei, il cui gruppo al Parlamento raccoglie anche alcuni indipendenti, i Pirati e alcuni partiti regionalisti, possiamo dire senza peccare di orgoglio (inopportuno venendo da una italiana) che siamo oggi la famiglia europea più coesa e stabile del campo degli “europeisti insubordinati”, cioè dei pro-europeisti convinti e impegnati da tempo a mettere in campo una discontinuità profonda nella direzione politica e istituzionale della UE.
Dopo un periodo difficile, siamo addirittura in ascesa in numerosi paesi, cosa che ci fa sperare in un risultato positivo alle europee; parteciperemo alla partita della presidenza della Commissione con due candidati, in ossequio al principio della parità di genere.
È anche molto chiaro per noi, però, che questa non sarà la solita campagna elettorale; oggi più che mai, siamo convinti che apertura e dialogo con altri gruppi e forze politiche affini siano imprescindibili, al di là di quello che sarà possibile fare al momento di comporre le liste. Ma per unirsi e convergere bisogna prima esistere e sapere dove andare mettendo in campo persone credibili e idee chiare.
In Italia lo sbarramento non può essere la scusa, soprattutto a 10 mesi dalle elezioni, per saltare la fase di discussione, di definizione di priorità e di mobilitazione di persone e forze che esistono nella società e hanno di nuovo voglia di impegnarsi in progetti positivi non solo nazionali, dopo il terremoto reazionario e sovranista in atto in Italia.
Io credo, perciò, che in Italia ci sia lo spazio politico per una opzione che unisca da un lato forze ecologiste, progressiste, femministe, federaliste, non concentrate esclusivamente in una definizione identitaria a sinistra; diversa dunque sia dal PD con i suoi tormenti (che speriamo vengano risolti con un deciso cambio di passo e di leadership e dai quali è bene stare alla larga), sia da una lista di sinistra “radicale”, che in questo momento è impegnata in un legittimo dibattito interno dopo il risultato delle elezioni del 4 marzo, tormentata dal futuro del PD nonché dalle sirene anti-euro e sovraniste di Mélenchon.
In questo contesto, i Verdi europei stanno lavorando alla costruzione di un’alternativa positiva e radicale in Italia, offrendo la forza di una famiglia politica transazionale e autonoma, ma aperta. Abbiamo già avviato contatti e un dialogo ampio, ma allo stesso tempo senza ambiguità su alcune linee direttrici, molto compatibili peraltro con i temi richiamati da Laura Boldrini: dal Green New Deal come proposta economica e sociale e come vera prospettiva di uscita dalla povertà e di preparazione al futuro di giovani e meno giovani, alla giustizia fiscale e a un bilancio UE finanziato anche da tasse “verdi”; da una riforma e allargamento delle politiche a favore di accoglienza e migrazione, sulla falsariga del testo approvato al PE, alla salvaguardia intransigente della UE come spazio unitario di difesa dello stato di diritto e della democrazia sovranazionale contro ogni illusione nazionalista; dal rafforzamento delle istituzioni comunitarie e delle forme di partecipazione diretta alle decisioni UE al rifiuto di qualsiasi opzione anti-euro.
È questa secondo me la strada da percorrere adesso. Sulla quale speriamo di continuare a dialogare, anche con le altre donne che vediamo impegnate in prima persona nella politica e nella società in Italia e il cui lavoro vogliamo contribuire a rendere molto più visibile e rilevante.
Bruxelles, 11 luglio 2018