(Articolo pubblicato sul Giornale di Brescia) In questa campagna europea, nonostante si ripeta spesso che queste elezioni saranno determinanti per definire la direzione di marcia delle istituzioni UE e non solo, si discute in modo molto superficiale delle complesse tematiche sulle quali dovremmo basare la nostra scelta, clima ed economia, migrazioni, stato di diritto e sicurezza, e sempre dal punto di vista dei rapporti di forza fra partiti e leader nazionali. E questo è un vero peccato, perché come provato dall’ultimo dibattito organizzato il 22 maggio fra i e le candidati capolista dei partiti europei alla sede del PE a Bruxelles, è perfettamente possibile avere una discussione di interesse e sostanza, anche dovendo fare lo sforzo di ascoltare in inglese o via una traduzione simultanea. Il format del dibattito è quanto di più inabituale per i telespettatori italiani. Una intervistatrice olandese e un ceco, 6 temi prestabiliti, domande preparate in precedenza con un ampio lavoro di gruppi di giovani, cinque candidati, audience di attivisti ma anche giovani al primo voto che hanno occupato la plenaria del Parlamento, risposte di circa 45 secondi (a volte davvero troppo brevi) possibilità limitata ma reale di interloquire con i concorrenti e qualche domanda davvero scomoda. In poco meno di due ore è stato possibile, forse più e meglio che nel dibattito che ha avuto luogo a Maastricht, tirare almeno due conclusioni: non è al momento davvero possibile capire che cosa succederà dopo le elezioni anche se la destra estrema avesse un buon risultato, perché le posizioni interne a quello schieramento sono molto diverse come diverse e ambigue sono le posizioni degli altri schieramenti rispetto alla possibilità di costruire una maggioranza con la destra: in altre parole, se è vero che i rapporti di forza si chiariranno dopo le elezioni, è anche vero gli stessi gruppi politici sono divisi al loro interno sulle condizioni e criteri che potranno permettere un accordo sulla presidenza della Commissione, sugli organi di governo nel PE e sulle grandi linee strategiche della UE. Ursula Von der Leyen ha detto chiaramente che la discussione non potrà avvenire fra “gruppi” ma considerando i deputati eletti e le loro posizioni rispetto alla guerra in Ucraina, alla difesa dell’UE (qualsiasi cosa questo voglia dire) e lo stato di diritto. Incalzata dalla giornalista e dai concorrenti sui suoi rapporti con la destra e con Giorgia Meloni in particolare, ha lasciato intendere con maggiore chiarezza che potrebbe benissimo capitare di essere sostenuta dalla Meloni ma non da alcuni personaggi scomodi all’interno del suo gruppo e ha ribadito che le posizioni sui diritti LGBT+ sono molto diverse tra lei e Giorgia Meloni.
In secondo luogo, c’é una notevole contraddizione fra la necessità di una UE in grado di agire su una serie sempre più lunga di sfide comuni, dall’adattamento al clima impazzito, alla transizione digitale e verde, con le scelte su industria, agricoltura e competenze da fare al più presto, alla difesa e sicurezza, e la persistente indisponibilità del partito di Ursula Von der Leyen e dei cosiddetti frugali di dire forte e chiaro che senza una riforma del funzionamento della UE e un accordo su un aumento del bilancio europeo, l’emissione di nuovo debito comune e il superamento del potere di veto di ogni stato, l’Unione ma anche i suoi membri sono destinati ad affogare nella loro stessa impotenza. E’ anche per questo che è così importante non solo andare a votare l’8 e il 9 giugno, ma anche farlo sapendo che questa volta è davvero un atto che contribuirà a decidere il nostro futuro: usare al meglio il nostro voto diventa perciò un dovere per tutti e tutte.