Il criticatissimo Presidente di COP28, l’emiratino Sultan Al Jabel, si scioglie in un sorriso scintillante dopo avere battuto con il martello la fine della ventottesima conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite di cambiamenti climatici (COP28) a Dubai ieri mattina. Quest’anno 198 paesi e quasi 100.000 persone hanno partecipato all’evento, anche se solo i rappresentati ufficiali dei governi hanno preso direttamente parte ai negoziati. Il resto erano soprattutto lobbisti (tantissimi quelli delle industrie fossili), rappresentanti di comunità indigene, della società civile e altri esperti. Dopo quasi due settimane e un giorno di ritardo, il cosiddetto “Global Stocktaking” (bilancio globale) l’esercizio che ha definito lo stato della lotta ai cambiamenti climatici e indicato e prospettive per realizzare l’obiettivo di mantenere entro il grado e mezzo il riscaldamento globale, è stato adottato da tutti i partecipanti. Come sempre in questo tipo di eventi, il risultato è in chiaroscuro. Ma sbaglieremmo a derubricarlo a un puro balletto diplomatico, perché pur se le decisioni alla COP non sono legalmente vincolanti, i suoi risultati orientano i governi, indicano ai settori produttivi la direzione di marcia e mobilitano milioni di persone. Il problema è che la macchina del mondo si muove troppo piano. Il ritmo degli sconvolgimenti del clima, lo vediamo ogni giorno, è rapido e implacabile. Qualsiasi sia il nostro giudizio sulla COP28, la scienza ci dice che dobbiamo invertire la marcia delle emissioni in modo sempre più radicale ed entro pochi anni per sperare di limitare l’aumento delle temperature a 1,5° a fine secolo e arrivare a zero emissioni nel 2050. Continuando al ritmo attuale, siamo vicini ai 3°. È il senso di urgenza dell’azione che ancora manca, insomma.
Per la prima volta, comunque, nel documento adottato a Dubai si chiede agli Stati di inserire nei piani che sono obbligati a fare e che definiscono il contributo alla lotta ai cambiamenti climatici (NDC) la necessità di intervenire sulle cause del cambiamento del clima e cioè i combustibili fossili, agendo già in questo decennio per abbandonarli; si chiede di triplicare il ricorso alle energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica, riducendo “sostanzialmente” le emissioni da metano entro il 2030: la fine di petrolio, gas e carbone diventa obiettivo comune, nonostante la strenua resistenza dei PetroStati, Arabia Saudita in testa, e delle imprese petrolifere (ricordiamo che ENI è il primo partner di ADNOC, l’impresa degli Emirati Arabi, organizzatori della COP28).
Tutto bene allora? Assolutamente no. Dietro i sorrisi per il pericolo scampato del fallimento, c’è la realtà di Paesi in via di sviluppo che hanno ancora bisogno di centinaia di miliardi di finanziamenti, che non hanno prospettive di arrivare a breve; nel testo, ci sono moltissime scappatoie e un elenco di soluzioni false perché troppo lontane o costose, dal nucleare alla cattura del carbonio che potrebbero essere usate come alibi per continuare a pompare gas e petrolio per i prossimi decenni; ci sono Paesi sviluppati e i produttori di petrolio non saranno costretti a muoversi con la stessa velocità richiesta dai numeri dell’emergenza climatica. Gli USA, ad esempio, pur avendo appoggiato le posizioni più avanzate si sono impegnati con solo 20 milioni di dollari nel nuovo e celebrato fondo “Perdite e danni” e soprattutto rimarranno il maggior produttore mondiale di petrolio e gas. La Cina non si è opposta all’accordo, ma giocherà su molteplici tavoli, continuando la sua produzione di carbone e spingendo fortissimamente su energie rinnovabili e mobilità elettrica; l’India non parte da Dubai con molti obblighi in più di quando è arrivata. Quanto all’UE, è riuscita per una volta a parlare ed agire con una voce sola; forte del Green Deal e di impegni ambiziosi che resistono per ora alla propaganda ecoscettica, ha giocato un ruolo importante e positivo per il risultato finale: la Presidente di turno del Consiglio della UE, la Spagnola Ribera era dappertutto insieme al Commissario Hoekstra che non ha sfigurato. L’Italia invece non ha toccato palla. Con un Ministro che non parla inglese e che ha deciso di tornare in Italia proprio al momento critico dei negoziati, è andata a traino della UE e questa volta possiamo dire che forse è stato meglio così.
Dopo la COP28, rimane la convinzione che solo l’alleanza e la mobilitazione di milioni di persone consapevoli, della libera stampa, della buona politica e di attori economici che hanno già scelto la transizione ecologica eviterà il grave rischio di perdere l’enorme occasione di una transizione equa e possibile