Il 6 febbraio la Commissione europea ha presentato alla sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo la strategia di allargamento dell'Unione Europea ai Balcani occidentali. Il documento, intitolato "Una prospettiva credibile per l'allargamento ai Balcani occidentali", indica la via per i sei paesi (Serbia, Montenegro, Bosnia Herzegovina, Macedonia, Albania e Kosovo) affinché entro il 2025 compiano progressi irreversibili sulla strada dell'integrazione nella Ue.
Le porte dell'Unione Europea, quindi, sembrano aprirsi alla Bosnia-Erzegovina, cui si chiede una forte presa di coscienza e volontà politica per portare avanti un complesso processo d'integrazione e di sviluppo; all'ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, impegnata da lunghissimo tempo nei negoziati con la Grecia per risolvere la disputa sul nome; all'Albania, dove la riforma della giustizia e la lotta alla corruzione costituiscono le due priorità assolute.
Anche il Kosovo è per la prima volta coinvolto in modo ufficiale fra i destinatari del processo di ampliamento, a patto di una normalizzazione dei rapporti con Belgrado.
Nei prossimi mesi il Commissario all'ampliamento e alla politica di vicinato, l'austriaco Johannes Hahn, e il Presidente della Commissione Juncker andranno in visita nei Balcani, in vista del Summit tra i vertici dell'Ue e i leader dei 6 paesi previsto a Sofia per il 17 maggio. Il primo Summit dal 2003, che allora vide la partecipazione di una delegazione kosovara capeggiata dal Rappresentante delle Nazioni Unite a Pristina che accompagnava i leaders delle due etnie.
Una prospettiva ambiziosa, quella della Commissione, che finalmente dà dignità e una chiara prospettiva a una regione ostaggio della criminalità organizzata e delle più profonde incertezze politiche, da decenni in balìa di un deficit democratico che ha come conseguenza la scelta reiterata e quasi coatta di una classe politica fortemente legata all'illegalità, coinvolta nella stessa corruzione che l'Unione chiede venga sconfitta. Un gatto che si morde la coda.
La via di un futuro europeo per una regione la cui stabilità è fondamentale per i paesi dell'Unione è stata una scelta di consapevolezza politica e coraggio, che vanno riconosciuti a questa Commissione.
Ma sono state fredde le reazioni di numerosi governi membri dell'Unione, tra i quali in particolare la Francia e la Germania che non hanno apprezzato la proposta di date precise anche se indicativa per l'entrata dei sei paesi e che temono che le maglie dell'eurocrazia siano troppo larghe per poter realizzare controlli efficaci e veritieri sullo stato reale delle cose nelle diverse materie ancora critiche.
La reazione nei Balcani non è stata migliore perché non si è apprezzata l'incertezza nella quale anche candidati "vincenti" e già vicini a Bruxelles vengono ancora tenuti: ci si è chiesti, a Belgrado e a Podgorica, perché la strada dell'integrazione sembri ancora lontana e poco tangibile.
L'impetuoso animo balcanico, di cui chi scrive è profondamente innamorato, si sa, ha spesso avuto difficoltà a comprendere le logiche stringenti che obbligano stuoli di eurocrati a concentrarsi sulla semantica di un documento e di scegliere alle fine il wording "European path" invece di "European vocation" per dare un messaggio meno entusiasta di quanto fosse probabilmente previsto ab origine.
È parsa infatti inaccettabile a Pristina questa blanda presa di coscienza dell'urgenza di una prospettiva chiara e definita per il Kosovo, il punto più dolente della strategia: perché se per gli altri paesi si intravede un futuro più o meno chiaro (sempre se, come ribadisce il documento, le necessarie condizioni saranno soddisfatte), la strada appare molto lunga per un paese il cui status rappresenta ancora una questione difficile per paesi membri come la Spagna e Cipro.
Un paese i cui leader hanno una storia pesante di partecipazione diretta alla guerra sulle spalle e che, stretti tra la politica aggressiva di Belgrado e le incertezze europee, non vedono al di là del momento presente, preferiscono lo stallo a una situazione che li penalizzerebbe anche dal punto di vista dell'integrità territoriale con la Serbia.
Una situazione, questa, resa ancora più difficile dalla mancanza di una prospettiva rapida di soluzione e quindi lo stallo diventa inevitabile. Senza un percorso chiaro indicata da Bruxelles, che deve anche passare da un chiarimento interno alla Ue, non si potrà risolvere davvero la questione Kosovo: mi pare che sia stato un errore, sicuramente derivato dalle divisioni interne alla Ue, di non dare una prospettiva più chiara; questo renderà ancora più complicato superare il deficit di rappresentazione democratica, la povertà (i fondi europei che arrivano nella regione sono oggetto di grande attenzione da parte della criminalità organizzata) e mancherà di dare quella scossa necessaria ai fini di un reale cambio di passo politico interno al paese.
Se il processo di entrata dei Balcani nell'Unione deve andare di pari passo con la assoluta e improrogabile necessità di stabilire lo stato di diritto, di tagliare sulla corruzione e sul crimine organizzato, di risolvere le dispute bilaterali sui confine nazionali e di fare scelte democratiche, quindi di corredare le proprie leggi e costituzioni di solidi valori europei, non ci si può aspettare che tale processo avvenga da solo senza una proposta chiara e una visione ben dettagliata e definita, che accompagni il processo che attanaglia lo sviluppo di questi paesi.
L'assassinio di Oliver Ivanovic, lader serbo di Mitrovica, è stato un segnale molto preoccupante: l'Ue e la comunità internazionale devono essere molto più presenti in quella regione e non solo con risorse finanziarie: il Kosovo potrebbe diventare ancora un "buco nero" nei Balcani e le comunità sono divise non tanto e non solo dai conflitti inter-etnici ma dalla mancanza di futuro, di sviluppo, di lavoro, dalla soffocante evidenza di un crimine organizzato che domina ogni settore della vita, il tutto accompagnato da una forte ingerenza di Belgrado.
A Mitrovica la gente vive tra una presenza internazionale che non riesce più a far fronte a una situazione di corruzione dilagante e delle istituzioni locali la cui autorità ha valore fino al Ponte sul fiume Ibar.
La comunicazione della Commissione, dunque, ha degli elementi molto positivi perché incita a una presa di responsabilità indispensabile e tenta di uscire da logiche di un negoziato solo burocratico; ma il processo che deve accompagnare il Kosovo e gli altri paesi dei Balcani verso la Unione non potrà avere alcun valore positivo né per noi né per la regione se l'Ue stessa è divisa ed esitante sulla strategia da seguire.
Infatti, se solo un'Europa forte, ambiziosa e lungimirante può sperare di giocare un ruolo positivo nei Balcani, è evidente che per fare questo deve affrontare e risolvere anche i suoi gravi problemi di funzionamento e legittimità interni. In questo momento, la Ue si dibatte in una crisi di "senso" e suoi importanti membri, come la Polonia e l'Ungheria, sfidano apertamente sia il futuro del processo di integrazione europeo che le regole democratiche al loro interno. Senza contare la piaga gravissima della corruzione e del crimine organizzato che mina ancora molti paesi, come la Bulgaria e la Romania (ma chi potrebbe negare che questo è un problema anche per altri paesi, Italia in testa..).
Segno evidente, questo, che l'appartenenza alla Ue non è di per sé una garanzia di stabilità e forza delle istituzioni democratiche e che la vigilanza sullo stato di diritto non può finire dopo l'adesione. Per garantire che nuovi ampliamenti non si risolvano in un ulteriore indebolimento di tutta la Ue, è perciò evidente che le porte aperte devono essere accompagnate da un ampio dibattito aperto e profondo, che non può essere limitato ai rappresentanti dei governi nazionali, su dove la Ue vuole andare e cosa vuole essere.
Questo articolo è stato scritto con Antonia Battaglia, PhD Phil.Pol, Ricercatrice all'Università Libera di Bruxelles. Pubblicato originariamente su Huffington Post.
Bruxelles, 12 febbraio 2018