Gentile ministro,
"Un Piano industriale per un'Italia delle competenze" pubblicato sul Sole24ore il 12 gennaio è un testo importante, anche per l'autorevolezza dei suoi autori; mi interessa quindi contribuire alla discussione in corso sulle proposte contenute nel documento con quattro considerazioni.
Innanzitutto, nel testo non si parla mai dell'impatto di quelli che sono definiti dal rapporto sulla Global Risk perception presentato alla vigilia del World Economic Forum di Davos, come i primi fattori di rischio globali, e cioè l'instabilità del clima e il fallimento della gestione dei suoi effetti, in particolare sulle risorse a disposizione e sui territori.
Pare insomma che i due autori facciano astrazione del fatto che vincerà non solo chi è più bravo o più digitale, ma anche chi saprà dare alle città, alle campagne e a chi ci vive, ai lavoratori e lavoratrici, la possibilità di rimediare e adattarsi alla realtà dei cambiamenti climatici; questo vuole dire in estrema sintesi liberarsi rapidamente della dipendenza dai combustibili fossili – tra i quali c'è anche il gas ovviamente -, riorganizzare anzi "rivoluzionare" la gestione delle risorse e la produzione industriale, attrezzare le zone urbane e il territorio a resistere a fenomeni ambientali sempre più estremi.
Mi sembra per questo urgente superare l'orientamento culturale e oserei dire "ideologico" che è presente nel testo, quello della neutralità tecnologica: cioè va tutto bene, basta che si produca e si venda "hic et nunc"; poi si vedrà. Questo atteggiamento non è senza rischi, perché fa perdere di vista dove si nascondono oggi le migliori opportunità per l'economia e l'occupazione del futuro. In altre parole, come ha detto in modo convinto e convincente a Davos oggi il Presidente Macron, non c'è alcuna ragione per mettere in contrapposizione fra loro le politiche per il clima e quelle per la produttività.
Vorrei fare a questo proposito due esempi molto concreti. Sergio Marchionne dichiara, praticamente ultimo fra tutte le case automobilistiche, che Fca farà un Suv (!) elettrico. Ma la verità è che in Italia siamo indietro su questo proprio a causa dell'errore strategico di Fiat che non ci ha mai creduto e del suo impatto sulle scelte pubbliche; l'elettricità è il vero "game changer" della mobilità privata e pubblica e sta avanzando velocissima, ma in Italia sono stati annunciati ingenti investimenti in centraline a metano per le auto. Secondo esempio: a Bruxelles si lavora (e si battaglia) da mesi su un pacchetto legislativo su rinnovabili ed efficienza energetica, ma l'Italia non fa parte dei paesi, non a caso i più avanzati nella Ue, che spingono nella stessa direzione.
L'Italia, insieme a Eni è invece molto attiva in Europa nella promozione del nostro paese come "hub" del gas e promuove la tesi che il gas debba non solo accompagnare l'inevitabile transizione energetica, ma, dato che è disponibile in abbondanza, debba rimanere un atout strategico nel lungo periodo. Non è un caso che, nonostante gli impegni della Sen ribaditi nel documento, non ci sia davvero poco o nulla che si muove in materia di rinnovabili; e i settori edilizio e quello dei trasporti non sono messi nelle condizioni di potere davvero spingere per un piano di efficientamento energetico concreto, puntando su un piano di larga scala di rinnovamento degli edifici e sulla mobilità elettrica da rinnovabili.
Ci chiediamo come si pensi di riuscire in questo modo a rispettare davvero i traguardi che il governo si è dato nella Sen e in particolare l'uscita dal carbone... Inoltre, il documento accoglie favorevolmente l'esenzione ottenuta dagli energivori e anzi auspica nuove esenzioni. Anche queste sono scelte che pesano sul bilancio; è utile ricordare che ben 16,1 miliardi all'anno vanno in sussidi diretti e indiretti "ambientalmente dannosi" in Italia.
Peraltro, la Commissione europea ha portato all'attenzione già anni fa che il costo dell'energia ha un effetto limitato sulla competitività europea, e in particolare quella tedesca e italiana, perché il settore manifatturiero è in genere già molto efficiente. Invece di ulteriori sconti e sussidi, sarebbe molto più utile investire denaro pubblico e privato per il rilancio in salsa "verde" di settori fortemente colpiti dalla crisi e poco efficienti come quello edilizio. È ormai noto, infatti, che ci sono importanti vantaggi in una rapida trasformazione del modello energetico: per esempio, in Europa 1% di aumento dell'efficienza energetica riduce la nostra dipendenza da russi e arabi del 4% e ha il potenziale di creare 336.000 posti di lavoro.
In terzo luogo, il documento insiste due priorità che mi sembrano assolutamente condivisibili in tema di concorrenza: servizi locali e concessioni. Ma osservo che già da anni si sostengono, in particolare per le concessioni autostradali, le stesse tesi, senza risultati concreti. Anzi. Nella battaglia in corso in sede Ue contro concessioni eterne a sostegno di autostrade superflue e costose, iniziata anche in seguito ai ricorsi che ho personalmente sostenuto insieme a vari comitati locali, il governo italiano sta decisamente dalla parte dei concessionari, in particolare Autostrade per l'Italia e il gruppo Gavio: se tutte le concessioni richieste andassero in porto, le buone intenzioni del documento di Calenda e Bentivoglio resterebbero lettera morta per decenni.
Ultimo punto, è quello che concerne l'Unione Europea. Il documento tocca giustamente in varie parti il tema della formazione e fa riferimento alla necessità di adattare il mondo del lavoro ai nuovi tempi. L'Ue mette a disposizione degli stati membri ingenti risorse, dalla Garanzia Giovani (pessimamente applicata in Italia come sottolineato dalla Corte dei Conti Ue) ad altri fondi che non sempre sono fatti funzionare in modo produttivo e utile; tanto per fare un esempio, pur se l'Italia è tra i maggiori beneficiari del Piano Juncker, solo pochi tra i progetti presentati contribuiscono alla spinta di settori innovativi e "verdi". La politica industriale e il rilancio dell'occupazione passano, secondo me, anche attraverso un'oculata gestione e utilizzo di questi strumenti. Che restano in Italia, nonostante qualche indubbio progresso, ancora sottoutilizzati.
(originariamente pubblicato su Huffington Post)
Bruxelles, 25 gennaio 2018